Tropea (VV)

Tropea in provincia di Vibo Valenzia sul mar tirreno  al centro della Costa degli Dei, è situata su una ripida rupe alta circa 60 metri a strapiombo sul mare. Noto centro turistico, fa parte del circuito de I borghi più belli d’Italia.[La leggenda vuole il fondatore sia stato Ercole quando, di ritorno dalle Colonne d’Ercole (attuale Gibilterra), si fermò sulle coste del Sud Italia.

Nelle zone limitrofe sono state rinvenute tombe di origine magno-greca.

La storia di Tropea inizia in epoca romana, quando lungo la costa Sesto Pompeo sconfisse Cesare Ottaviano. A sud di Tropea i romani avevano costruito un porto commerciale, vicino all’attuale Santa Domenica, a Formicoli (toponimo derivato da una corruzione di Foro di Ercole), di cui parlano Plinio e Strabone.

Per la sua caratteristica posizione di terrazzo sul mare, Tropea ebbe un ruolo importante, sia in epoca romana (attestato dalla cava di granito che sorge a circa 2 km dall’abitato, nell’attuale comune di Parghelia) sia in epoca bizantina; molti sono i resti lasciati dal bizantini, come la chiesa sul promontorio o le mura cittadine (chiamate appunto “mura di Belisario“).

Dopo un lungo assedio, la città fu strappata ai bizantini dai pirati arabi, per poi essere riconquistata dai Normanni, sotto i quali prosperò.

Tropea continuò a prosperare anche sotto il dominio degli Aragonesi. (fonte Wikipedia)

 

Serra San Bruno (VV)

Serra San Bruno deve la sua origine alla venuta del monaco Bruno di Colonia, fondatore dell’Ordine dei Certosini , che dedicò la sua vita alla ricerca di Dio in silenzio e in solitudine e ricevette in dono dal Conte Ruggiero il Normanno i territori che oggi sono geograficamente individuati come altopiano delle Serre Calabre, per la costruzione del suo eremo, la Certosa di Santo Stefano del Bosco, primo monastero d’Italia e secondo in Europa dopo quello di Grenoble, in Francia.

Il paese è formato dal centro storico, chiamato Terravecchia e da Spinetto, quartiere più nuovo del primo perché costruito dopo il terremoto del 1783, che aveva distrutto buona parte del centro storico, rendendolo fatiscente e perciò denominato “terra vecchia” e alcuni edifici del monastero, tra i quali la chiesa conventuale certosina, di cui oggi rimane solo la cinquecentesca facciata in granito a testimonianza della grandezza che il tutto monastero possedeva.

La successiva ricostruzione del paese fu dovuta anche alla presenza di artigiani del legno, del granito e del ferro battuto richiamati nei secoli a Serra dalla presenza della Certosa; infatti, furono proprio questi maestri d’arte che sfruttarono le risorse di cui la zona era ricca, il legno, il ferro e il granito, per la creazione di opere d’arte che servivano per l’abbellimento delle chiese e del paese. Le chiese di Serra, infatti, conservano numerose testimonianze del glorioso passato artistico di questo bellissimo paese.

Scilla (RC)

Secondo la mitologia greca, Scilla era una ninfa marina che per gelosia fu trasformata da Circe in un mostro mentre faceva il bagno in una caletta presso Zancle (l’odierna Messina); al posto delle gambe ebbe sei teste di cane che latravano, e lunghe code di serpente. La storia è raccontata nell’Odissea e nelle metamorfosi di Ovidio. Per chi però non s’accontentasse delle narrazioni mitologiche, ecco un’interessante ipotesi filologica delle origini sia dei nomi sia del mito di Scilla e Cariddi:

“Nell’antichità, a causa della tenuità e precarietà dell’informazione, spesso accadeva che voci e dicerie col passare dei secoli si accrescessero (fama crescit eundo, dicevano infatti i latini, o anche rumor multa fingit) fino a perdere il loro originario significato, talvolta addirittura trasfigurandosi in mitologia; quella della pericolosità della navigazione all’imboccatura settentrionale dello stretto di Messina, ossia in corrispondenza del passaggio tra la penisoletta di Scilla in Calabria e il capo siciliano di Cariddi, pericolosità considerata tale da arrivarsi addirittura a far derivare questi nomi da quelli di due mitologici spaventosi mostri divoratori di naviganti, in verità non corrisponde per nulla alla realtà delle cose, non essendoci infatti alcuna evidenza storica che ci confermi un particolare rischio nell’affrontare quel passaggio marittimo mediterraneo, il quale inoltre non fu nemmeno mai universalmente riconosciuto come rischioso quanto lo furono invece quello di Capo Horn, quello di Buona Speranza e quello di Agulhas, passaggi questi ancor oggi battuti da violenti venti e possenti correnti oceaniche. Da dove nasceva allora questa paurosa fama di Scilla e Cariddi? Probabilmente una certa pericolosità per le piccole e leggere imbarcazioni antiche doveva esserci, ma questo evidentemente prima che i frequenti e devastanti terremoti e maremoti succedutisi nel corso del tempo in quella sfortunata zona ne avessero sicuramente mutato la geografia sottomarina.

Il primo a parlarci di Scilla e Cariddi come di mitici mostri sanguinari fu Omero nella sua Odissea, poema a cui poi tanti antichi scrittori si rifecero data l’autorevolezza della fonte. Nacque pertanto più tardi il detto: ‘Incappa in Scilla volendo evitare Cariddi’ (Incidit in Scillam, cupiens evitare Charybdim) per significare ‘cadere dalla padella nella brace’; ma in realtà schille (σϰίλλαι) nome greco calabrese, e caridi (ϰαρίδες), nome greco siciliano, avevano lo stesso significato, trattandosi infatti di due dei tanti nomi che allora nel Mediterraneo si davano ai gamberetti; un altro per esempio era palinuri (παλίνουροι), ma questo si usava più a nord, cioè per indicare quei crostacei che si potevano trovare e pescare appunto a Capo Palinuro (per inciso, anche questo nome poi fu mitizzato). Molto probabilmente dunque ‘essere tra Scilla e Cariddi’ non significò in origine trovarsi tra due pericoli di pari gravità, come più tardi invece si fraintese, ma volle semplicemente dire ‘se non è zuppa è pan bagnato’, cioè ‘è inutile che tu te ne stia a riflettere se far sosta a Scilla o a Cariddi, tanto sempre gamberetti dovrai mangiare’. E dovevano essere anche crostacei molto buoni perché Il Suida narra che il famoso buongustaio romano Apicio, autore di un ricettario di cucina vissuto tra 1º secolo a.C. e 1º secolo d.C., era talmente ghiotto di gamberi, gamberetti e astachi che girava il Mediterraneo su una sua nave recandosi e fermandosi là dove c’era fama che si trovassero i migliori crostacei; e proprio per questo motivo fu costretto a soggiornare per qualche tempo a Minturno nel Lazio, perché ne aveva fatto proprio là scorpacciate tanto smodate da restarne ammalato. Suida, Lexicon, graece et latine. T.3, p. 266. Halle e Brunswick, 1705.”[6]

Secondo PalifatoPolibio e Strabone, il primo nucleo abitato di Scilla risalirebbe ai tempi della guerra di Troia. In questa remota epoca si è soliti riconoscere nella penisola italica ondate di migrazioni di popolazioni iberoliguri provenienti dal mare e dirette verso sud. Si ritiene[chi?] dunque che tali popolazioni potrebbero aver fondato qualche villaggio lungo i terrazzamenti più bassi del crinale aspromontano sud-occidentale, digradante verso lo Stretto. Trattandosi di popoli di pescatori, presumibilmente elessero come area d’insediamento il sito adiacente alla rupe centrale di Scilla, dove la presenza dei numerosissimi scogli agevolava la pratica della pesca, consentendo al tempo stesso la costruzione delle rudimentali capanne.

Il quartiere di pescatori di Chianalea con il Castello Ruffo
Il quartiere di pescatori di Chianalea con il Castello Ruffo di notte

Tale ipotesi è in parte avvalorata dallo stesso Omero allorquando, nel descrivere Crataia come madre di Scilla, lascia intendere l’esistenza di uno stretto legame tra questa e la nascita del mito del Monstruum Scylaeum, da intendersi sorto ancora alla prima frequentazione umana del tratto di mare antistante l’odierna cittadina. Dal momento che Crataia è da più parti identificata con il vicino torrente Favazzina, ancora ai tempi del Barrio chiamato fiume dei pesci[7], se ne potrebbe dedurre che gruppi di popoli dediti alla pesca, giunti via mare lungo la bassa costa tirrenica, inizialmente siano approdati alla foce di questo fiume, dove era agevole praticare l’attività, e successivamente si siano spostati più a sud, trasferendo la propria residenza presso la costa scillese, più ricca di pesci.

Gerace (RC)

La storia di Gerace è strettamente collegata a quella di Locri Epizephiri. Il nucleo abitativo, infatti, nonostante esistano tracce di frequentazione in epoca pre-greca, greca e romana, si sviluppa solo in seguito all’abbandono della città di Locri, avvenuto a partire dal VII secolo d.C., a causa del sempre maggiore pericolo piratesco e la sempre crescente insalubrità delle coste. A questo spostamento dei Locresi dall’antico sito costiero verso l’interno è strettamente collegato anche il nome della cittadina che, a dispetto delle leggende che vogliono che esso sia legato ad un leggendario sparviero, in greco Ièrax, Ιέραξ, che avrebbe guidato i Locresi, inseguiti dai Saraceni, verso la rocca, pare dipendere dal nome della Diocesi di Locri, dedicata a Santa Ciriaca (Aghia Kiriaki, Agia Ciriaci, Αγία Κυριακή in greco).

Che la cittadina fosse da sempre strettamente collegata alla cristianità appare evidente non solo dal fatto che sia stata spostata, in realtà, la sede della diocesi locrese, ma anche dalla presenza innumerevole di chiese e monasteri anche infra muros, che ha contribuito a identificare la rocca come una sorta di Monte Santo.

Per la sua particolare posizione, però, Gerace divenne ben presto un centro di importanza eccezionale nella Calabria Meridionale; la possibilità di controllare i traffici costieri, la sua particolare conformazione orografica che permetteva una naturale fortificazione, fece sì che divenisse oggetto di attenzione sia dell’Impero bizantino che del regno di Sicilia. La presenza congiunta di tali potenze fece sì che il centro resistesse a lungo agli attacchi degli Arabi, che mantenesse una certa autonomia rispetto ai Normanni e che fosse, in seguito, oggetto di attenzione per i dominatori non solo dell’Italia ma di tutto il Mediterraneo. Testimonianza di tale importanza è la grande ed eccezionale (per qualità) quantità di architetture ecclesiastiche e laiche, frutto di committenze imperiali (Cappellone di San Giuseppe nella Concattedrale certamente svevo), regali (si pensi agli interventi normanni nel Castello, nella Concattedrale e in altre chiese sparse all’interno delle mura o alla Chiesa di san Francesco, voluta da Carlo II d’Angiò nel 1294), principesche e feudali.

Museo Archeologico di Reggio Calabria

Interessante giornata culturale da dedicare al Museo Archeologico di Reggio Calabria con visita alle statue di Riace, famose in tutto il mondo oltre agli innumerevoli reperti storici dell’era Greco-Romana. 

Il 16 agosto 1972 a 230 metri dalle coste di Riace Marina, Stefano Mariottini (un giovane sub dilettante romano) immergendovisi, rinvenne a 8 metri di profondità le statue dei due guerrieri che sarebbero diventate famose come i Bronzi di Riace. L’attenzione del subacqueo fu attratta dal braccio sinistro di quella che poi sarebbe stata denominata statua A, unico elemento che emergeva dalla sabbia del fondo.[3] Per sollevare e recuperare i due capolavori, il Centro subacquei dell’Arma dei Carabinieri utilizzò un pallone gonfiato con l’aria delle bombole. Il 21 agosto fu recuperata la statua B, mentre il giorno dopo toccò alla statua A (che ricadde al fondo una volta prima d’essere portata al sicuro sulla spiaggia).[3]

(altro…) "Museo Archeologico di Reggio Calabria"

Sila

A pochi chilometri di distanza dal nostro mare è possibile trascorrere una giornata tra le meravigliose montagne alberate della Sila e i spettacolari laghi. Partecipare alle numerose sagre paesane del luogo con degustazioni dei tante specialità culinarie che gli abitanti del luogo organizzano